Miei cari figlioli,
mi pare solo ieri che vi affacciavate stravolti e azzerati sulla porta di questo strano bar; ‘che vi guardavate attorno un poco timorosi e attoniti chiedendo: “Ma è questo il Bar di Papà Marcel ? e lei è proprio Papà Marcel ?”. Venivate, la maggior parte di voi, già con il mio nome, il mio indirizzo datovi da qualche compaesano che, prima di voi, era passato di qui e ne era ripartito amico. Il primo incontro con la immancabile richiesta della “cassetta dei polli” per la borsa – valigia. Bastava dirvi: “Son finite” e vedevo sui vostri volti uno sgomento come nell’attesa di un voto alla Tesi di Laurea. “Domani, ve ne cerco ancora; vedrai che le trovo e poi, soprattutto, d’ora in poi datemi del tu”. Così si rompeva il ghiaccio; cominciavate le prime confidenze, richieste di consigli con l’animo rigonfio di nostalgia e di amarezza. Purtroppo, in questi mesi, per quasi tutto il tempo del vostro Corso, ho vissuto anch’io un periodo di estrema preoccupazione e di dolore per la mia famiglia. Ora che tutto è passato, io dico grazie a voi tutti perché dalla vostra amicizia o, meglio, dal vostro interessamento e dal vostro affetto ho tratto tanto conforto e tanta forza. Grazie ! Finisce questo 114° Corso: sarà una tessera in più nel mosaico dei miei ricordi e dei miei affetti. Con la tradizionale ultima stretta di mano e con l’abbraccio dell’addio a tutti, la proposta e la parola più bella: Arrivederci I Ogni anno ho occasione di ritrovare e di sentire tanti con i quali, come con voi, ci siamo lasciati con un arrivederci. Ci si rivede, ci si risente nei momenti più disparati, nei momenti di gioia e negli istanti di dolore, quando si cerca un,volto, un’animo amico. Ora, auguri a tutti; siate sempre degni della vostra “Stella” con giusta severità, ma, soprattutto, con umanità e comprensione.
Con giusta severità, ma, soprattutto, con umanità e comprensione. Ieri giungevate come bambini spauriti, oggi siete degli uomini temprati e pronti al meglio della vita. Ricordatevi ciò che vi dicevo nei primi giorni, quando mi confidavate: “Marcel , mi non ghe a fasso” e io vi rispondevo che con un Capitano come il vostro, non solo ce l’avreste fatta, ma da bimbi spauriti sareste di ventati dei veri uomini. “Più lo conoscerete, più lo stimerete, e avrete per lui qualcosa di più che. ammirazione”
PAPA’ MARCEL, Aosta 1984
Papà Marcel, 1974 ricordo di uno Sten Veronese del 74° Corso AUC.
L’ultima volta che ci siamo rivisti con un po’ di calma ed abbiamo potuto parlare è stato a Verona, all’adunata degli Alpini, una vita fa. Era il 1981 ed io ero là, mordendo il freno perché non potevo sfilare nella mia città dato il fardello di tre pargoli che mi trotterellavano attorno, tutti eccitati dalla baraonda. Ero vicino all’Arena, lungo le transenne, in attesa dell’inizio della sfilata.
Marcel – era Marcel per tutti: il suo cognome l’ho sentito per la prima volta all’annuncio della sua scomparsa – si trovava davanti a me, di spalle. Spostandosi nella ressa mi ha urtato leggermente e si è voltato subito per scusarsi. Un attimo: quegli occhi chiari e buoni mi riaccesero qualcosa, qualcosa che non riuscivo al momento a catalogare. Forse mi ha fregato il suo cappello da Alpino, che celava la famosa pelata nota a chiunque sia passato per Aosta nel corso di tanti anni, la pelata che risplendeva dietro al bancone dell’osteria più amata da tutti noi.
“Ma tu eri alla Smalp!” ha esclamato.
Sono rimasto di sasso. Va bene: che ero alpino lo si capiva dal cappello e il fatto dell’AUC poteva essere dedotto dai gradi di sottotenente, troppo facile. Invece si ricordava proprio di me, tra i mille e mille che gli erano passati davanti. L’ho capito dalla mezz’ora di chiacchiere fitte che mi ha sparato indietro tra i ricordi, fino al 1974.
Lui li inquadrava al volo i “suoi” Alpini: quelli che erano solo un po’ depressi, cioè quasi tutti, e quelli che erano proprio in crisi. Per quest’ultimi aveva una sensibilità tutta particolare ed una delicatezza fuori dell’ordinario per fermarsi a scambiare quella parola in più che serviva. Con Marcel era facile aprirsi perché non chiedeva, dava. Un bicchiere di una grappa speciale, un panino dei suoi, una sorso dalla grolla valdostana. Solo che la parte materiale di quel suo dare era unicamente l’inizio, lo spunto per sciogliere il groppo che l’AUC (o ACS: i problemi erano gli stessi per tutti) sentiva enorme e soffocante, nel fondo della gola. Ha aiutato me, ha aiutato mille altri, con piccoli grandi interventi che non ti facevano sentire più solo.
La prima volta ci eravamo incontrati in una giornata difficile. Aspettavo la morosa dopo un mese e mezzo di caserma e servizi, servizi e punizioni, con guardie e marce a fare da contorno. Era il febbraio del ’74 e il 74° Corso faceva pesantemente sentire i suoi effetti. Aspettavo finalmente la morosa che veniva ad Aosta. Solo che per la neve erano saltate le coincidenze a Milano e così, dal mezzogiorno fino quasi a sera, ho continuato a fare la spola tra la stazione e l’osteria di Marcel, fino ad allora nota solo per gli entusiastici racconti dei Vecchi del 73°. Due parole, un bicchiere ordinato, uno offerto, qualche banalità che, nel mio ansioso va e vieni per controllare qualsiasi treno in arrivo, diventava via via meno superficiale.
Da allora Marcel e la sua splendida osteria –una specie di tempio pagano per qualsiasi uomo con la penna nera – sono diventati per me un riferimento ed un’ancora di sicurezza. Ho conosciuto sua moglie, minuta ma delicata come lui, ho conosciuto suo figlio, mi ha invitato tante volte (purtroppo invano, tra servizi, morosa e gli ultimi esami universitari da finire) nella sua baita che mi pare fosse a Pila. Sono tornato un paio di volte anche dopo, negli anni, con la morosa diventata moglie e con i marmocchi che erano saliti a quattro. Aosta senza Marcel non era Aosta, almeno per me. E Aosta e Marcel rimarranno un ricordo tra i più preziosi, un ricordo che non muore.
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